Il rapporto tra il rom e Devel (Dio in lingua romanì) è un rapporto speciale e intimo, piuttosto individuale ed esistenziale. Devel è una forza positiva invocata nei momenti più difficili dell'esistenza, un supporto morale e psicologico irrinunciabile. Devel è il riflesso della vita e del bene. Nella spiritualità romanì ci sono tracce di tante religioni del passato: dal buddismo e induismo dell'India ( la terra d'origine di tutti i gruppi rom, sinti, calè/kale, manouches e romanichals) all'islam e al zoroastrismo persiano.
Oggi le diverse comunità romanès professano molte religioni: quella ortodossa, cattolica, protestante, evangelica e musulmana. Nel corso della storia, spesso, i gruppi romanès si sono allineati alle diverse fedi più per convenzione che per sincera convinzione, spesso per evitare repressioni e violenze. Anche per questo le comunità romanès si riscontrano più nella cultura romanì che nella fede. Ogni rom è un phral, un fratello, indipendentemente dalla fede professata. Non esistono guerre di religione fra le diverse comunità romanès. Il rapporto con Dio, in ogni caso, è un rapporto a due: D-io. I rom italiani di antico insediamento nelle regioni del sud Italia definiscono Dio come MUR DEVEL (il mio Dio), come se ogni individuo ne avesse uno personale. DEVEL si contrappone alle forze negative e malefiche di BENG (diavolo), dei MULE (spettri) e delle Choxaniá (streghe). Devel santifica la vita in tutti i suoi aspetti e nel suo manifestarsi. La vita, la sua salvaguardia e il suo prolungamento prevalgono su tutto.
Rarissimi sono i suicidi fra i rom, nonostante le difficoltà quotidiane e la discriminazione su base etnica. L'etica romanì del resto lo vieta come vieta l'assassinio. Anche per questo le comunità romanès non hanno mai fatto guerra e attentati terroristici. La vita ha un valore assoluto nella cosmologia cultura romanì e non a caso la procreazione ha un ruolo centrale: ogni nascituro è una benedizione divina.
Il D-io romanò aiuta l'essere umano a vivere nel modo migliore nella vita reale e lo aiuta a trasmettere il dono divino della vita alla propria discendenza. L'etica romanì è dinamica e realistica, non dogmatica e questo è determinante per salvaguardare il prolungamento della vita stessa. Nel fare le scelte e le valutazioni che la realtà presenta quotidianamente alle comunità romanès, la presenza di un D-io che ama la vita e la sostiene in ogni circostanza è di grande aiuto morale e psicologico. È certamente di grande rassicurazione nella ricerca di un'accurata e solida etica d'azione e di rispetto della vita nonostante le tribolazioni quotidiane derivanti da un'assurda, incivile e disumana discriminazione su base etnica che ancora oggi, dopo secoli, le comunità romanès devono fronteggiare.
I quartieri-ghetto e i campi nomadi non dovrebbero esistere in una società civile, moderna ed evoluta. Il ghetto sancisce un'appartenenza e una condizione sociale che si imprime nella coscienza collettiva definendo di fatto una cittadinanza di serie A e una cittadinanza di serie B, i campi nomadi sanciscono addirittura una cittadinanza serie Z (zingari, con un carico dispregiativo). In pratica si stabilisce una classificazione sociale che spesso diventa razziale essendo che nei ghetti e nei campi nomadi vengono destinati stranieri e cittadini indesiserati come i rom e sinti.
Il ghetto o il campo nomade diventa luogo per esseri umani declassificati e per le fascine sociali deboli con tutto ciò che questo comporta a livello sociale, culturale, economico e politico. Chi abita nel ghetto o nel campo nomadi viene etichettato e ha molte più difficoltà nell'inserimento scolastico, sociale ed economico. Spesso l'interazione delle fascie deboli avviene solo nel loro interno creando di fatto un circolo vizioso e fenomeni sociali deviati.
Da parte delle istituzioni gli interventi sono quasi sempre a carattere assistenziale che influisce molto anche a livello morale e psicologico con conseguenze sul piano dell'autostima e della rassegnazione. La disillusione diventa così nemica della società civile. È facile nel ghetto o nel campo nomadi acquisire la sindrome da ghetto che favorisce devianza, bullismo, violenza. In questi non luoghi si creano economie di sopravvivenza a discapito della società civile.
Ogni essere umano avrebbe diritto ad un alloggio non etichettato. Andrebbero incoraggiati lo studio e la formazione, le attività ludiche e sportive, gli eventi artistici e culturali, ma soprattutto andrebbero sostenute e agevolate il lavoro e le attività economiche. Tutto ciò eviterebbe che il ghetto o il campo nomadi diventasse un ricettacolo di attività illegali da cui è difficilissimo sottrarsi.
Il ghetto, e ancor di più il campo nomadi, sempre più giustifica una costante attività di supremazia sui più deboli a tutela esclusiva dei più forti e delle classi più abbienti, facilitando lo sciacallaggio attraverso il becero assistenzialismo. In sostanza il ghetto e il campo nomadi sono espressioni di egoismo allo stato puro e prevaricazione di ogni diritto minimo di sicurezza e di sopravvivenza, espressione di arroganza e di prepotenza che inevitabilmente viene restituita dalle vittime alla società civile come un fatale boomerang. Il ghetto e sempre più il campo nomadi sono i non luoghi o pattumiere sociali che stabiliscono la linea di confine fra la civiltà e l'esclusione.
Il ghetto e il campo nomadi imprimono una disparità sociale da superare e sottolineano un limite culturale prima che socio-politico. Evidenziano di fatto una situazione o condizione tale da circoscrivere e limitare lo sviluppo dell'attività delle persone o gruppi specifici e ne dequalifica l'incidenza sociale.
I campi nomadi sono forme orrende di segregazione razziale indegni di un Paese civile, espressione di un classismo antidemocratico e antisociale che andrebbero evitati e superati a vantaggio di tutta la collettività. Si spendono miliardi e miliardi di euro per assurdi armamenti ma non si spende abbastanza o si risparmia sulla pelle di cittadini inermi a cui arrivano solo progetti fasulli e inutili nonostante i milioni di euro sperperati. Le leggi razziali, abrogate nella legislazione, sembrano essere ancora in vigore nella testa e nel cuore di troppi amministratori e di tanti politici corrotti. Sono soprattutto rom e sinti a pagarne le conseguenze sotto lo sguardo indifferente dell'opinione pubblica che viene lasciata nella più completa disinformazione.
I politici e le istituzioni sono al corrente ma fanno orecchie da mercanti.
Eppure con poco si potrebbe fare tanto a vantaggio di tutti, purtroppo manca una reale volontà politica e istituzionale per superare questa situazione.
Fin dal Rinascimento esiste in Europa un razzismo specifico per i rom/roma, sinti, calé/kale, manouches e romanichals i gruppi della popolazione romanì che vengono definiti dispregiativamente "zingari". Come per gli ebrei esiste l'antisemitismo, allo stesso modo per i gruppi romanès esiste un razzismo che viene definito antiziganismo o romfobia. Il razzismo si alimenta di mistificazioni e di stereotipi negativi che giustificano la discriminazione su base etnica. Le comunità romanès furono accusate di ogni nefandezza pur di giustificare la loro repressione: dall'accusa di cannibalismo all'accusa di propagare la peste, dall'essere spie al soldo dei turchi ottomani all'aver forgiato i chiodi per la crocefissione di Cristo (la popolazione romanì neanche esisteva al tempo di Gesù). A queste accuse si sommavano quelle di essere ladri, imbroglioni e criminali in ogni epoca quando contemporaneamente c'erano famiglie romanès oneste e più che integrate ma non facevano testo. Non poteva passare inosservato il vagabondare di molte famiglie che non riuscivano a stabilizzarsi (la mobilità era in realtà coatta poiché le comunità romanès non potevano sostare o integrarsi in alcun luogo) che contravveniva ad uno dei principi cardini delle società passate: il dovere di lavorare la terra per il bene comune. Stereotipi su stereotipi accatastati durante secoli che hanno portato alla situazione moderna: un odio razziale viscerale. Durante la Seconda Guerra Mondiale il nazi-fascismo attuò un genocidio sistematico e almeno 500 mila persone furono barbaramente massacrate dalle truppe d'assalto e nei campi di sterminio per ciò che viene ricordato in lingua romanì come Samudaripen (letteralmente "tutti morti" come sinonimo di "genocidio"). Oggi come nel passato esistono famiglie romanès integrate come famiglie romanès emarginate e ancora oggi, esattamente come nel passato, a finire nelle cronache sono le famiglie emarginate e deboli socialmente mentre quelle oneste che vivono tranquillamente e non toccano le facili corde dell'emotività non esistono nell'immaginario collettivo. Da qui il preconcetto che tutti i rom sono disonesti o persone da cui tenersi alla larga. Questa discriminazione su base etnica influenza le decisioni sul piano politico con ripercussioni a livello sociale: per le famiglie emarginate è sempre più difficile essere incluse. I rom e sinti italiani sono relegati nei quartieri ghetto e i rom stranieri reclusi nei "campi nomadi". Ad approfittare di questa situazione di fragilità ci pensano gli opportunisti senza scrupoli e Mafia Capitale ci ha fatto ben intendere perché devono esistere i "campi nomadi" per un popolo che in realtà non è nomade per cultura. I campi nomadi sono vere e proprie pattumiere sociali e forme orrende di segregazione razziale non degne di un Paese civile e democratico. I campi nomadi costano un'infinità di milioni di euro e non risolvono i problemi legati all'antiziganismo, ma al contrario li acuiscono. Con meno soldi e con un'avveduta programmazione politica si potrebbero ottenere risultati sorprendenti sul piano dell'inclusione con vantaggi concreti per tutti. A molti però questa situazione "rende" da un punto di vista politico e mediatico e alle associazioni di pseudo volontariato da un punto di vista economico. A livello sociale si verificano i maggiori danni in termini di conflittualità. L'antiziganismo così alimenta un circolo vizioso che reca danni a tutti. Solo la giusta conoscenza, la corretta informazione e l'incontro/confronto può favorire il superamento di secoli di incomprensioni.
Dott. Prof. Comm. Santino Spinelli
Con il termine romanipen si indica l’identità e la cultura della popolazione romanì i cui membri sono dispregiativamente definiti dai gagé (non rom, termine altrettanto dispregiativo) come “zingari”. Da ciò si evince che “zingari” e “gagé” sono vocaboli che sottendono un conflitto che andrebbe superato con la conoscenza e il dialogo. La popolazione romanì è costituita da cinque gruppi principali che si autodeterminano come: rom, sinti, kale, manouches e romanichals. All’interno di ciascun gruppo ci sono tantissime e diversissime comunità che hanno stile e modelli di vita e culturali differenti. E’ una popolazione transnazionale che si presenta come un’ infinito antropologico ma nell’immaginario collettivo viene ridotto a stereotipo. I gruppi e le comunità traggono origine dalle regioni a Nord Ovest dell’India: Rajasthan, Valle del Sindh, Uttar Pradesh, Punjab. Per diversi motivi, ma soprattutto a causa delle deportazioni gaznavide dell’XI secolo, attraversarono la Persia, l’Armenia, l’Impero Bizantino prima di arrivare in Europa (XV secolo). Con le deportazioni degli Stati europei arrivarono nelle colonie dell’America del Nord e del Sud e in Australia. La popolazione romanì parla la lingua romanì o romanès che è una lingua neo indiana che si è diramata in tantissimi dialetti, tanti quanti sono le comunità presenti in tutti i continenti con circa 22 milioni di persone. I diversi gruppi sono presenti in Europa con circa 12 milioni di persone e in Italia con circa 180 mila individui. Di quest’ultimi almeno il 60% sono di cittadinanza italiana. Si dividono in circa 50/55mila rom di antico insediamento che popolano le regioni del Sud Italia e circa 50/55mila sinti di antico insediamento che popolano le regioni del Centro Nord Italia. I rom italiani di antico insediamento arrivarono nel Regno di Napoli e nello Stato Pontificio tra la fine del XIV secolo e il XV secolo. I sinti italiani di antico insediamento arrivarono nel XV secolo; il primo documento del loro arrivo a Bologna risale al 22 luglio 1422. I rom e sinti italiani vivono in casa, i sinti circensi e giostrai vivono invece in comode roulottes o campers poiché seguono in maniera itinerante il loro lavoro. Circa 70mila rom sono arrivati in Italia recentemente a partire dagli anni Settanta ad ondate successive dai territori dell’ex-Jugoslavia, dalla Romania e ultimamente dalla Bulgaria. Sono i rom di recente immigrazione ad essere senza cittadinanza italiana e che vivono in condizioni difficili nei campi nomadi appositamente costruiti per loro. Sono luoghi di segregazione che non rispondono ad esigenze culturali o sociali ma sono ghetti ripugnanti che alimentano interessi particolari di chi gestisce queste pattumiere sociali come Mafia Capitale ha ampiamente dimostrato. Un Paese civile non può e non deve tollerare forme di apartheid. I gruppi romanès non sono nomadi per cultura come la disinformazione dilagante fa credere. Gli slogan romfobici non aiutano il processo di interazione e di inclusione ma nascondono interessi politici, mediatici, sociali ed economici di parte. Molti rom e sinti italiani sono già inclusi (spesso relegati in quartieri ghetti) ma non sono né conosciuti né tantomeno rispettati a causa di diffidenza e pregiudizi. La realtà è mistificata e l’errore del singolo porta irrimediabilmente alla condanna di un’intera popolazione. L’opinione pubblica sa poco o nulla della popolazione romanì. La romanipen dunque è “nascosta” o “invisibile”. Il termine contiene in sé tutti gli elementi essenziali del mondo romanò: rom è sostantivo e significa “uomo, essere umano”; è anche un etnonimo ovvero il modo in cui un popolo definisce se stesso; romanì è aggettivo femminile singolare e si declina in romanò, romanè, romanià. Cardini essenziali della romanipen sono alcuni concetti basilari che riflettono una visuale di vita dualistica: il concetto di puro/impuro, di onore/vergogna e di felicità/infelicità. Questi concetti contrapposti si collegano alle due entità spirituali Devel (Dio) e Beng (diavolo), alle forze del bene (mistipen) e del male (nafel) e alle due entità del destino baxt (fortuna, felicità) e bibaxt (sfortuna, infelicità) che intervengono a regolare, a disciplinare e a condizionare ogni aspetto dell’esistenza. Le norme morali tradizionali (romanì kris) e il galateo romanó sono scrupolosamente osservati all’interno di ciascuna comunità e garantiscono: il rispetto, la cordialità, la convivialità, la solidarietà e l’ospitalità. La visione dualistica dell’universo si estende su ogni aspetto dell’esistenza romanì: dall’igiene personale al corpo umano, dalla preparazione dei cibi alla salute, dall’erboristeria alla magia. A presto e un saluto caloroso e fraterno in lingua romanì: But baxt ta sastipen! Con tanta salute e fortuna/felicità.