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sabato, 27 Luglio, 2024

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“Tana Gilbert, l’amore sospeso” di Fabio Bozzato

Questo articolo, scritto da Fabio Bozzato, è stato pubblicato sul numero 40 di Vanity Fair.

Schermo buio, un neonato mormora, una donna lo rassicura con parole dolci. A poco a poco, le immagini cominciano a mettersi a fuoco, sono riprese mosse e un po’ sporche fatte con un telefonino: la donna è stesa su una brandina e cerca di far addormentare il suo bambino. Poco dopo ricompare lei, in una stanza insieme ad altre ragazze, in mezzo a giochi e culle. Poi appaiono le secondine. Allora la voce della protagonista, Karina Sánchez, condannata a dieci anni per spaccio e madre di un figlio nato in carcere, comincia il suo racconto lungo 73 minuti, pacato e triste, asciutto ed emozionante.

Malqueridas, il docufilm della regista cilena Tana Gilbert, ha strappato alla recente Mostra del Cinema di Venezia il premio della Settimana della Critica come miglior pellicola e il Premio Mario Serandrei per la qualità del montaggio e della post-produzione. Prodotto da Paola Castillo (Cile) e Dirk Manthey (Germania), Malqueridas è un piccolo gioiello del cinema indipendente che, dopo Venezia, si appresta a un lungo tour di festival in giro per il mondo, una distribuzione nelle sale ancora da definire e, per il pubblico italiano, tre occasioni per vederlo al cinema: il 3 ottobre sarà proiettato a Udine, il 10 a Trieste e il 16 a Bolzano.

Tana Gilbert, 30 anni, ha sorpreso tutti con questo suo primo lungometraggio, per la maestria e la bellezza della narrazione filmica. «È il risultato di una lunga e paziente collaborazione con un gruppo di detenute nel carcere di San Joaquín, a Santiago del Cile. Abbiamo lavorato sulle immagini e le foto raccolte clandestinamente dentro il penitenziario», racconta.

Si stima che, in Cile, le donne rappresentino l’8 per cento della popolazione carceraria; sono circa 3 mila in tutto. Il 90 per cento di loro sono madri, spesso mamme single, provenienti da quartieri poveri, con storie di abusi alle spalle e in una situazione di permanente vulnerabilità. I neonati possono stare in carcere fino ai due anni, nelle cosiddette Salas Cunas, poi devono separarsi dalle mamme che, a volte, rivedono dopo anni. Quando, scontata la pena, le detenute tornano a casa, li trovano adolescenti. Si calcola che siano circa 100 i neonati in carcere e 8 mila i minori che vivono lontani dalle madri.

La bellezza del lavoro di Tana Gilbert sta nella capacità di sospendere il giudizio su queste donne: non le vittimizza né le condanna, fa invece emergere i loro timori, i sogni, l’asprezza e la tenerezza. La giovane regista racconta di essersi interessata ai problemi delle carceri per via di suo padre: «È finito in prigione negli Stati Uniti quando ero bambina e, per un anno, mia madre ha fatto fronte a tutto. Per seguire la causa, ha lasciato in Cile me e mia sorella, io avevo tre anni, lei quattro mesi. L’idea del carcere e degli affetti sospesi mi accompagna da allora».

Quando ha iniziato a pensare a Malqueridas?
«Nel 2017. Su Facebook ho trovato i profili di donne che caricavano foto e brevi video dal carcere. Lo facevano di nascosto perché il regolamento penitenziario proibisce di tenere i cellulari che, infatti, a ogni retata vengono puntualmente requisiti. Non è un reato, ma si rischiano punizioni, sospensioni delle visite e persino l’isolamento. È l’unico modo, però, per mantenere un legame, seppur minimo, con i famigliari e con il mondo esterno. Ho contattato alcune di loro e, tramite una Ong che lavora all’interno della prigione, ho organizzato un laboratorio e poi le visite. C’è voluto del tempo per costruire fiducia e intimità».

Come reagivano le donne che contattava?
«Abbiamo fatto moltissime interviste e conversazioni. Alcune sono state entusiaste fin da subito, come Karina, con cui abbiamo lavorato sul testo e sulla voce. Altre erano più sospettose, c’era chi pensava che si trattasse di un reportage e che, una volta finito, non ci saremmo più fatte sentire. Altre ancora si sono allontanate per poi riavvicinarsi, forse vedendo tanta tenacia. Tutte avevano un unico pensiero: i figli».

Come avete raccolto il materiale?
«Con cura, perché poteva finire perduto, confiscato o distrutto in qualsiasi momento. Abbiamo salvato foto e video pregressi e realizzato nuovi filmati. Dopo sei anni di lavoro, avevamo circa mille video e 4 mila foto tra post su Facebook, messaggi privati e riprese live. Bisognava organizzare il tutto».

Sulle immagini è stato fatto un grande lavoro.
«Sì, il primo passo è stato suddividerle a seconda del tipo di azione rappresentata: per esempio, l’atto di truccarsi, di bere o di riposare. Così, una volta sviluppata la sceneggiatura, potevamo attingere a queste specifiche cartelle per costruire la scena. Il montaggio è durato un anno. Abbiamo lavorato su colore e luce, e poi stampato ogni frame: alla fine avevamo quasi 33 mila immagini, ci sono voluti quattro mesi solo per la composizione digitale. Volevo che tutto scorresse in maniera fluida».

Lo ha definito un «archivio di resistenza»: che cosa intende?
«Registrare la propria vita di madri-detenute, con foto o con video, rappresenta una forma di consapevolezza e di empowerment. Di solito sono gli altri che parlano di loro; questa volta, invece, hanno avuto la possibilità di autorappresentarsi. Il nostro compito è stato quello di umanizzare la loro esperienza carceraria senza giudicarla. Nel corso del progetto abbiamo provato a non focalizzarci sui delitti e sulle pene, ma sul tempo: che cosa significa rimanere private della libertà per cinque o dieci anni? In alcuni casi abbiamo appreso i reati a pochi mesi dalla fine del progetto».

La protagonista, Karina Sánchez, ha partecipato, commossa, alla Mostra del Cinema di Venezia. È rimasta in contatto anche con le altre donne con cui ha lavorato?
«Certo, sono una ventina e, ormai, sono uscite dal carcere. Il giorno prima di andare al Festival abbiamo proiettato il film in esclusiva per loro, in una sala nel centro di Santiago; abbiamo pianto tutte. Ora vorremmo che questo documentario diventasse uno strumento per un progetto sociale più ampio. Innanzitutto, per sostenere la campagna a favore del disegno di legge che prevede pene alternative al carcere per le donne incinte e le neomamme, fermo in Parlamento da anni. Teniamo presente che, in Cile, solo il 6 per cento del budget del sistema penitenziario è destinato al reinserimento. Inoltre, ci piacerebbe creare un laboratorio per aiutare queste donne a creare una loro impresa: l’unico modo, forse, per emanciparsi dal destino a cui, altrimenti, sarebbero condannate».


Fonte: https://www.vanityfair.it/article/tana-gilbert-lamore-sospeso

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