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mercoledì, 1 Maggio, 2024

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Il 25 aprile. La Liberazione e i suoi due frutti: Repubblica e Costituzione di Carlo Verdelli

Presa da sola, liberazione è una parola felice, e vale per ogni ambito che la contempli. Ma Liberazione con la elle maiuscola sta diventando per molti un fastidio. E già la vedi, sgomberata dalla sua sede propria, aggirarsi confusa nella lunga fila delle parole scomode, di cui presto sbarazzarsi: fascismo, antifascismo, delitto Matteotti, nazismo, via Rasella, resistenza, Fosse Ardeatine, partigiani, deportazione, svastiche, lager.

Q uando passa il camion che se le porta via tutte e ci lascia finalmente in pace di vivere un presente senza passato? Questa rimozione di un pezzo della nostra Storia, da più parti e con crescente insistenza invocata, contiene però un’insidia forse non abbastanza messa in conto. Noi Italia siamo quello che siamo stati, e pensare di recidere una fetta del tronco convinti che l’albero starà in piedi lo stesso, anzi meglio e più saldo, è un’illusione già sperimentata con insuccesso da altri laboratori politici e da altre volonterose segherie sull’ascissa del tempo e l’ordinata del mondo.

Il 25 aprile che ci aspetta sarà diverso da quelli che l’hanno preceduto perché diversa, per non dire antitetica, è l’ispirazione del governo che se lo ritroverà cerchiato in rosso sul calendario. L’impressione, magari malevola, è che molti esponenti a vario titolo della prima maggioranza orgogliosamente di destra preferirebbero depennare la data, saltando in fretta un martedì di passione e di passioni. Qualche ministro ha già annunciato che sarà all’estero (Francesco Lollobrigida, Agricoltura), il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, si è premurato di spiegare che le vere battaglie sono altre, «a partire dalla difesa della nostra lingua». La premier e anche leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, sarà di sicuro all’Altare della Patria con il presidente Sergio Mattarella, per il resto si vedrà.

Al di là dei luoghi istituzionali e dei sacrari degli eccidi del nazifascismo italiano, è da sempre nelle piazze che si è celebrato il giorno del 1945 in cui il nostro Paese ha riconquistato la libertà perduta sotto il regime di Mussolini e con l’occupazione di Hitler. Ed è proprio quella gioia, quel sollievo di popolo manifestato per le strade, a compensare almeno in parte più di vent’anni di guerre e morti, di oppressione e di vergogne come le leggi razziali e la deportazione dei nostri ebrei. È proprio dalla festa in onore di chi è stato partigiano, dal seme interrato definitivamente quel 25 aprile, che è cresciuto il resto dell’albero. Certo che gli Alleati giocarono una parte decisiva nella cacciata del nazismo, e senza il loro intervento probabilmente racconteremmo un altro finale. Ma resta incancellabile il fatto che senza la Resistenza, a cui parteciparono cittadini e contadini delle più diverse convinzioni politiche, la Liberazione sarebbe forse comunque avvenuta ma con altro senso e altre ricadute sull’immediato dopo.

Il 2 giugno 1946 nasce il primo germoglio del seme gettato un anno prima: la Repubblica italiana. Il secondo frutto è la Costituzione, che marca con taglio netto la distanza dal regime che l’ha preceduta. Promulgata il 27 dicembre 1947, chiarisce già dal primo articolo che l’Italia è una repubblica democratica, cioè impiantata nel campo opposto a quello arato dalle dittature: una nazione dove verranno garantiti i diritti inviolabili dell’uomo e dove ciascuno avrà pari dignità sociale e davanti alla legge.

La stranezza, se così è lecito definirla, è che gli anniversari di Repubblica e Costituzione siano condivisi e omaggiati da tutto il variegato arco parlamentare. La Liberazione no. È «divisiva», come si usa adesso definire le parole ingombranti, e quindi meglio scivolarci sopra senza troppo irritare né chi la sente propria né chi la subisce come fosse un totem dell’altra parte, cioè dei comunisti (che si sono estinti), dei rossi (qualsiasi cosa possa ormai rappresentare questo colore), insomma dei nemici di quei partiti che oggi governano. È con ogni evidenza una sciocchezza, se non una stortura, sia storica sia politica: spezzare in tre parti una sequenza tra elementi inseparabili, rinnegando il primo, comporta il rischio di lasciare senza radice quel che ne è seguito, privandolo dell’origine e del codice genetico.

Ma se l’obiettivo è tenere accese e anzi alimentare le divisioni di un Paese già fin troppo frammentato, tenendo per buona solo la memoria utile e sbiadendo, o alterando, quella considerata avversa, allora è più che conseguente darsi malati il prossimo 25 aprile o comunque evitare di farsi vedere, aspettando che passi la giornata e potendo silenziandola.

Ci sarebbe un’altra opzione, con un notevole valore simbolico: accettare la Liberazione come pietra d’angolo di tutta la vicenda nazionale che ne è seguita, comprese le evoluzioni del partito che ora guida per maggioranza il Paese, e lo guida in forza di elezioni popolari che sono strumento chiave di quella democrazia di cui il 25 aprile fu appunto seme e alba.

Nella tempesta che stiamo attraversando e che non si annuncia breve, tra complesse tensioni internazionali e complessivo impoverimento del sistema Paese, stemperare le divisioni aiuterebbe quel minimo di coesione indispensabile a fronteggiare con un più di unità il crescente meno di benessere.

Spegnere fiamme già estinte dalla Storia non è un cedimento ai desiderata di un’opposizione, per altro sparsa e confusa. E non è neppure un tradimento di trapassati ideali, che comunque non hanno trovato posto nella Carta costituzionale che tutti, a cominciare da chi comanda, sono tenuti a rispettare. Pur senza rincorrere irrealistiche visioni di armonia e concordia nazionale, rispettare il 25 aprile che verrà aiuterebbe a svelenire un clima che vede addensarsi più scontri che confronti su troppi temi sensibili, vedi la disubbidienza civile di sindaci di peso sui figli arcobaleno o sulla restrizione delle tutele per i migranti.

Fratelli e sorelle d’Italia per un giorno. Il giorno che ha reso possibile, 78 anni fa, la democrazia che abitiamo. Non sarebbe una concessione. Ma una presa d’atto dovuta. Non è mai troppo tardi per accordarsi all’unica memoria che questo Paese incarna e riconosce come tale. Basta un gesto, volendo un fiore.


Fonte: Corriere della Sera

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