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mercoledì, 8 Maggio, 2024

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..E mi ricordo il mio scudetto, articolo di Renato Salvicchi

La prima volta che papà mi portò a giocare su un campetto di calcio avrò avuto meno di due anni. Così almeno mi raccontavano lui e mio fratello, e ormai non posso più chiedere loro conferma. Le foto ingiallite mostrano un bimbetto, pieno di capelli biondo chiari, che correva felice dietro a un pallone, con la valvola chiusa da lacci. Per me e per mio fratello più grande, figli di un’ex giocatore della Lazio, ma interista l’uno laziale l’altro, il calcio non era solo un divertimento ma un modo per stare con papà, per assistere alle sue giocate, per imparare ad apprezzarlo anche in quella cosa, per sentirsi grandi con lui, per sognare.

Un paio d’anni dopo, quando ormai dietro al pallone non potevo più correre per gli effetti disastrosi di uno degli ultimi agguati epidemici della polio, andare con papà e mio fratello Pino sul campetto di calcio era solo una maniera per prendere un po’ d’aria. Magari pure qualche pallonata in faccia, stando in porta, illudendomi d’aver fatto una bella parata. A metà degli anni ’50 la televisione in Italia era appena nata ed era la radio a portare il calcio nelle case, come continuerà a fare per tanto tempo con programmi divenuti cult per quel mix di voci, istantaneità e magia che diventa incanto irripetibile. Alla radio, la domenica. Nicolò Carosio, allora, interpretava ” un tempo di una partita del campionato. Alla fine della radio cronaca partiva la musica per una decina di minuti, che poi ” sfumava ” all’improvviso sulla voce di Carosio che, irrompendo di nuovo, annunciava solenne: ” Campionato italiano di calcio, divisione nazionale serie A, ottava giornata del girone d’andata, risultati finali… “. E dalla scatola magica, centellinata, arrivava un’emozione, un brivido, una sensazione forte che nessuna diretta televisiva multipla, nessuna tv ultra HD potrà mai restituire perché  sviluppo e progresso sono cose differenti. Nelle edicole, allora, il calcio lo potevi vedere animato su una sola testata: ” Il calcio e il ciclismo illustrato”, un settimanale di colore verdino, pochissime pagine rispetto ai magazine d’oggi, ma che tuttavia trasmetteva al lettore la iconografia un po’ romanzata, e perciò sublime, della giornata di campionato o delle gesta ciclistiche di Coppi, Bartali o di Bobet. Mi ricordo l’odore del giornale: un profumo intenso. Non solo della carta stampata, ma di quello più sottile e vitale dell’attesa, della voglia maturata di leggere che non trova soddisfazione se non da quell’unico strumento e da quell’unica offerta di prodotto editoriale. Non perché mancassero quotidiani sportivi, ma solo perché l’epica del calcio – e dell’altro sport nazionale: il ciclismo – attraverso quel mezzo erano ancora possibili, e l’immaginazione, il sogno, la fantasia dello sportivo non erano ancora stati assassinati dal consumo orgiastico dei media e dall’intreccio perverso con ciò che oggi costituisce il core business anche dello sport: l’interesse economico, e non più la passione. E mi ricordo, questo sì lo ricordo bene, le poesie di Umberto Saba. ” Il portiere caduto alla difesa ultima, vana… “, che oggi non posso più leggere senza un groviglio alla gola… Che però svanisce d’incanto quando rivedo i vhs sbiaditi di mio figlio, bimbo poco più grande di quello in foto, mentre esulta di gioia intensa su un campetto di scuola, dopo aver segnato qualcuno di quei goal che suo padre non ha potuto fare. O quando gioisco con lui, ormai grande, per uno scudetto tornato a vincere dopo tanti anni. A cui mancano come una ferita i complimenti e gli sfottò di quei laziali di casa.

 

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