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venerdì, 3 Maggio, 2024

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Consiglio permanente. Un estratto dell’introduzione del Card. Matteo Zuppi

La domanda a Samuele

Negli ultimi giorni la Liturgia della Parola nella Celebrazione Eucaristica ci ha proposto il personaggio di Samuele. Prima che Davide entri in scena e ne diventi protagonista, c’è un dettaglio che ha attirato la mia attenzione. Quando Samuele arriva a Betlemme su incarico di Dio per ungere il figlio di Iesse, gli anziani della città che gli vanno incontro gli chiedono: «È pacifica la tua venuta?» (1Sam 16,4). La domanda potrebbe essere così riformulata: «Sei venuto a portare la pace o la guerra?». Perché questa domanda? Forse perché, qualche pagina prima, la figura di Samuele era associata alla guerra. La gente di Betlemme, quindi, adesso pensa che la sua presenza, in un modo o in un altro, sia un preludio di sciagura. Noi sappiamo che le cose non stanno affatto così. Il mandato di Dio al profeta è di designare Davide. Ma la percezione della gente è diversa. Mi sono chiesto: «Chi siamo noi per la nostra gente?»; «Cosa si aspettano da noi?»; «Cosa possiamo fare noi per loro, come credenti e come pastori?».

Operatori di pace

La pace è quello di cui l’umanità ha più bisogno oggi. Più volte abbiamo parlato di questo tempo di guerra. Ma dobbiamo farlo, perché è la realtà di oggi e proietta la sua ombra sinistra su tutti. Guardando al contesto internazionale, non possiamo non esprimere forte preoccupazione per l’escalation di odio e violenza che, in Ucraina, in Medio Oriente e in moltissime altre parti del mondo, sta seminando morte e distruzione. Il rumore delle armi continua ad assordarci; il male della guerra si allarga; la società è come assuefatta al dolore e chi parla di pace è come se gridasse nel deserto. Questo vuol dire che dobbiamo rassegnarci? Mai! Come diceva don Primo Mazzolari, «ognuno di noi è un cielo che può dar pioggia o sereno, preparare la guerra o confermare la pace: ognuno di noi è guardiano degli argini della pace». La costruzione della pace è certamente un dovere dei “grandi” della Terra, ma chiama in causa ciascuno di noi. Ognuno deve essere operatore di pace, artigiano di pace. Dobbiamo trasformare la sofferenza causata dalla guerra nella nostra sofferenza. Chiedere la pace vuol dire fare nostre le lacrime di tutti i fratelli e le sorelle che soffrono e che vengono privati del loro futuro; vuol dire coinvolgersi personalmente perché solo da cuori pacificati può sgorgare il desiderio di pace; vuol dire – come ha chiesto il Papa all’Angelus di domenica 21 gennaio – sentire «la responsabilità di pregare e di costruire la pace» per i bambini, per i più piccoli, per i più deboli. L’ansia della pace è un grido che diventa preghiera. Non dobbiamo stancarci di invocare il dono della pace, di educarci alla pace, a partire dalle nostre case, dalle nostre famiglie, dalle nostre comunità. Le nostre Chiese devono abolire il linguaggio della discordia e della divisione, devono avere parole di pace, chiamando i fedeli a nutrire pensieri e sentimenti di pace. In quest’ottica, l’iniziativa dell’accoglienza dei bambini ucraini, che si sta realizzando grazie alla Caritas italiana, può offrire una parola di pace concreta: può essere un’esperienza davvero evangelica perché rende possibile a tutti la solidarietà, genera legami di fraternità e si prende cura degli ultimi, di chi è piccolo e soffre per la guerra senza nemmeno sapere il perché.

A sostegno dell’educazione scolastica

Della vicenda di Samuele riprendo ancora un’ultima immagine. Quella di lui ancora giovinetto, che vive presso il santuario di Silo dove riceve un’istruzione religiosa e sicuramente anche umana dal sacerdote Eli. Il Primo libro di Samuele dà ampio rilievo a questo tempo di formazione, che si conclude con questa affermazione: «Samuele crebbe e il Signore fu con lui» (1Sam 3,19). Non credo che sottolineeremo mai abbastanza l’importanza di una formazione integrale della persona, sin dalla più tenera età, che tenga conto della storia della nostra cultura segnata dal fattore religioso e apra la mente e il cuore al trascendente. È in questo quadro di riferimento che saluto con piacere la firma lo scorso 9 febbraio dell’accordo tra CEI e Ministero dell’Istruzione e del Merito per il prossimo concorso degli Insegnanti di Religione Cattolica. Questi insegnanti – la stragrande maggioranza dei quali sono laici – comunicano a scuola i valori dell’Umanesimo cristiano. Sono i formatori delle prossime generazioni. A loro il compito ecclesiale e civile di educare alla pace, di educare alla legalità, di educare alla cultura, mostrando come il Cristianesimo ha contribuito a fondare i valori di libertà e rispetto dell’altro, che sono alla base della nostra società. L’attenzione verso le nuove generazioni è un tema cruciale per il futuro della Chiesa e della società. I giovani sono il presente delle nostre comunità. È un tema al centro del Cammino sinodale su cui avremo modo di tornare in futuro.

Conclusione

Ho voluto aprire questa nostra riunione con alcune riflessioni, perché credo che dallo scambio di opinioni, sentimenti ed esperienze può maturare una visione più aperta alla speranza della nostra realtà. Non ho da insegnare, ma credo che il comune discorso debba partire da un punto, sicuramente per superarlo. Lo scambio è un anello della struttura di comunione della CEI, che andrà rivisitato nel decisivo Cammino sinodale, per un suo migliore funzionamento che consideri anche lo snodo decisivo delle Conferenze regionali e delle Commissioni episcopali.

Di fronte al popolo italiano, alle istituzioni locali o nazionali, alle componenti della vita culturale, sociale e politica, la Chiesa si presenta qual è, senza alterigia, ma consapevole di avere una missione unica. Faccio mie le parole di un sacerdote romano, don Andrea Santoro, ucciso mentre pregava a Trebisonda, in Turchia, nel 2006: «La via più alta della superiorità è quella dell’amore e della giustizia che si china sul diritto e sul bisogno dell’altro, che non si lascia vincere dal male, ma vince il male con il bene, che si apre al perdono perché non vuole giudicare ma salvare, che non ha altro motivo di vanto se non nella gioia e nella vita dell’altro».

Roma, 22 gennaio 2024

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