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sabato, 27 Aprile, 2024

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“Stai buona, adesso passa” di Maria Elena Viola

Ve lo siete sentite dire? Quando non stavate bene, quando eravate piegate in due e nessuno vi dava ascolto, quando vi davano dell’isterica. Quando vi ribellavate e quando stavate zitte. Quando una vostra richiesta d’aiuto passava per un capriccio, una vostra paura come la solita paranoia di una che “somatizza”.

Stai buona che poi ti passa. Sembra una frase che ti rassicura, invece è un espediente per scaricarti, Per dirti che esageri, che la fai lunga, che se continui così “chi ti piglia.

È incredibile come la cultura corrente ci voglia fragili e indifese ma, quando poi ci concediamo di esserlo, non esiti a farci passare per delle lagne e delle mollaccione.

“Su su, che sei forte. Su su, che poi ti passa”.

[…], ma stavolta voglio dedicare questo spazio ai diritti di cui nessuno parla, i diritti silenziati che non entrano nelle Costituzioni, che non agitano le piazze, che non sembrano nemmeno diritti finché uno non ci si mette a pensare: Come il diritto. di non soffrire.

Sembra che le donne siano “omologate” al dolore. Progettate per sopportarlo. Create allo scopo di testare l’umana capacità di resistenza. Il dolore del ciclo, che irrompe e che sconquassa quando si è poco più che bambine. Il dolore del parto, anestetizzato a richiesta con l’epidurale ma sempre in agguato e “preferibile” in versione integrale. Costellato di altri dolori: quello dell’episiotomia e del
cesareo, delle ragadi gestazionali e delle ferite che spaccano il seno quando il neonato si attacca male. I malesseri improvvisi e volubili della menopausa. Gli spasmi crudi certi disturbi dell’utero e dell’apparato genitale. Le lacerazioni degli aborti cercati o spontanei.

E’ davvero così scontato soffrire? Così tassativo e ineludibile? Sembrerebbe di sì, finchè qualcuno non spezza il dogma che lo vuole connaturato al corpo femminile e chiede di fermarlo. Rifiutandosi di accettarlo come se fosse una cosa da niente, pretendendo che venga almeno riconosciuto e curato come si deve. Lo ha fatto Chiara
Martegiani, protagonista della nostra copertina, con una serie molto coraggiosa: Antonia. Parla di endometriosi.

La sua. Ha usato il mezzo più immediato e dirompente per gridarla in faccia al mondo e farla uscire dall’ombra, mixando con intelligenza rabbia e ironia. Senza sperare di vincerla, perché non è una cosa facile, ma almeno di addomesticarla. Darle voce. Renderla una cosa che c’è. Esiste. Dentro al suo corpo, non nella sua testa.

Perché talvolta si rischia di non essere credute. È capitato a lei, capita a molte di coloro che ne soffrono (lo racconta Tea Ranno in un libro appena uscito e nel servizio a pag. 20). Tanto che si finisce per sopportare l’insopportabile come se fosse una cosa normale, il sottofondo delle proprie giornate. Musica acida h24, fino all’esplosione.
«Tu non hai mica bisogno di andare a Roma per fare l’attrice» dice a un certo punto la madre ad Antonia. Riconoscere il diritto a non soffrire non significa far sparire il dolore, ma imparare a non ignorarlo. Per esempio, promuovendo la giustizia mestruale (ne parliamo a pag, 28), che significa non sottovalutare né stigmatizzare i disagi fisici e psicologici derivanti dal ciclo, autorizzare per legge le assenze dal lavoro o dalla scuola nei giorni di maggior fastidio come ha fatto di recente. la Spagna, inserire i disturbi legati alle mestruazioni nei Lea, i Livelli essenziali di assistenza.

Ci sono conquiste che finché non se ne parla non ci sembra neanche di doverle fare. Battaglie importanti che passano in secondo piano solo perché tendiamo a confondere la scelta col destino. Fino al 197è8 quando è entrata in vigore la legge 194, le donne che restavano incinte e non potevano o non volevano tenere il bambino non avevano alcun supporto. Dovevano abortite di nascosto, come racconta il bel libro di Marta Stella “Clandestine”.

Rischiando la vita, superando il trauma fisico ed emotivo senza l’aiuto di nessuno. Nemmeno dei padri, che si limitavano a sparire, lasciando tutta la sporca faccenda a lei. Interrompere la gravidanza, semplicemente, non era un’opzione. Ci sono volute le silenziose ed eroiche ribellioni personali e le intemerate e plateali lotte dei primi movimenti femministi per sancire un diritto che oggi riteniamo inalienabile. E che è applicabile a tutte le guerre combattute o da combattere sul corpo delle donne. Il diritto di decidere. E non essere invisibili.


Fonte: Donna Moderna

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